Il campo e la funivia


Il villaggio dei pescatori è immerso nel caldo della foresta. Le strade sono di terra e le case di frequente sono baracche, anche se non mancano edifici in muratura curati e freschi. In quella che chiaramente posso definire una baracca un gruppo di persone gioca a carte, con delle banconote a fianco, e ci invita a fotografare, forse anche a partecipare in qualche modo incomprensibile alla partita. Una bambina culla un cucciolo di cane nero, alcuni piccoli giocano con dei mattoncini Lego e altri giocattoli. Le piante incombono e rinfrescano, mentre verso il mare aumentano i detriti e i rifiuti abbandonati. Molti uomini dormono nelle amache, in attesa che i figli più grandi tornino da scuola, con le loro eleganti divise, che a me sembrano uno degli ultimi retaggi del Colonialismo nella versione otto-novecentesca. Il villaggio sorge all’ombra della funivia più grande del mondo, quella che unisce le isole di Phu Quoc e Hon Thom, 7.899,9 metri che attraversano l’arcipelago delle Isole del Sud, il più colossale dei progetti finora realizzati in vista della creazione, qui all’estremo sud del Vietnam, di una nuova destinazione del turismo di massa globale. In quest’ottica il villaggio dei pescatori, che si chiama Xa Bai Chuong, dovrà scomparire, per fare spazio al grande Nature Park della catena “Sun World”, parco a tema marino che, quanto a dimensioni, ha come riferimento la funivia, per darvi un’idea di ciò di cui stiamo parlando. Forse gli abitanti del villaggio verranno assunti nella nuova struttura, magari per impersonare loro stessi, i pescatori, ma nella veste di dipendenti del parco. Forse il beneficio economico e occupazionale sarà più diffuso e il turismo offrirà una nuova chance a queste famiglie. Quello che è certo, è che qui arriverà qualcosa che prima non c’era, qualcosa che, pure con una forte presenza di compagnie vietnamite nel progetto, assomiglia a una nuova forma di imposizione dall’esterno, più o meno come accadeva con i colonizzatori venuti dall’Occidente. La sensazione però, in questo caso, è che non ci potranno essere guerre di liberazione nazionale.

Quella guerra che, invece, ritorna prepotentemente in primo piano nella prigione-museo di Phu Quoc, parte di un campo di prigionia sudvietnamita che, ai tempi della guerra con gli americani, ha visto recluse 40mila persone in condizioni ovviamente sconvolgenti, che il museo documenta con fotografie e ricostruzioni tridimensionali. Le baracche di ferro sono, più che luoghi fisici, categorie di pensiero del Novecento, l’immagine - che definirei platonica se non suonasse come un insulto a chi, in quelle baracche, ha visto e subito ogni tipo di orrore, quindi non lo faccio - di una sconfitta irrimediabile, quella di tutti noi in quanto esseri umani. Mentre attraverso il campo - e anche questa parola ha un peso specifico terribile - lotto contro lo sprofondamento nella depressione ricordando le pagine di Roberto Bolaño dedicate alla Letteratura nazista in America e ai suoi autori immaginari che disegnavano nei deserti le mappe di Auschwitz, oppure a Sebald e ai ricordi scomparsi di Jacquot Austerlitz, bambino mandato in Inghilterra per sfuggire ai nazisti. Ma serve a poco, per non dire a nulla. Esco senza forze, stremato, anche se l’ultima sezione del museo documenta una fuga sotterranea di un gruppo di “patrioti”. È chiaro che, come era accaduto a Saigon per il “Museo dei crimini di guerra”, sono stato testimone di una narrazione parziale; qui non si parla di quanto i vietcong facevano ai prigionieri americani o del Vietnam del Sud e certamente c’erano torturatori anche tra i patrioti di Ho Chi Min. Temo però che non sia questo il punto, e di certo, non lo è per me. Questo campo è diventato tutti i campi, e gli internati, eravamo tutti noi. Anche in questo caso, non è possibile una guerra di liberazione, stavolta dagli incubi della storia, neppure nella luce irreale di un’isola tropicale che prova a diventare una star del turismo internazionale.

Più tardi il sole sta per tramontare sul mare e il nuovo resort che ci ospita ricorda l’Africa dei safari, di Hemingway (sempre lui, una specie distorta di padre gigantesco), della ricchezza in mezzo a tutto il resto che ricchezza non è. L’acqua della piscina è calda, la sabbia fa rumore quando ci cammino sopra, i gechi fuggono nelle crepe dei muri quando mi avvicino. Metto la testa sott’acqua e ascolto solo il rumore dei miei respiri, respiri asiatici questa volta. Come se non ci fosse altro, almeno per un minuto. Poi devo riemergere e la realtà che mi arriva ha le fattezze dalla sospensione della realtà stessa, come se la vacanza fosse al posto della vita, non una sua parte in qualche modo speciale o complementare. Poi la pozzanghera del pensiero si allarga e diventa: come se tutto quello che faccio - da questo diario alla rincorsa alle mostre di mezzo mondo, dai treni pendolari alle serate in pubblico, dalle tristezze private all’immagine che ho costruito di me stesso come una specie di intellettuale - fosse al posto della vita.

Appoggio i gomiti sul bordo della piscina, ascolto il rumore delle onde, qualcuno ancora passeggia sulla spiaggia che sta diventando più buia. Passa allora di lì proprio Hemingway con una bottiglia in mano. “È rum?” gli chiedo. “Di quello che non se ne trova più”, mi risponde e mostra due bicchieri. Gli sorrido e lo raggiungo su uno dei lettini, dai quali il personale ha già tolto i materassini bianco sporco. “Mi piace di più quando è scomodo”, dice Ernest riferendosi alle doghe di legno. Lui non lo sa, ma io lo capisco benissimo. Faccio finta di niente e tracanno il mio bicchiere. Poi mi alzo e vado verso la mia stanza, mentre lui dice, forse parlando da solo a voce alta, “il Vietnam mi mancava, le avevo viste tutte le altre guerre”. Anche questo lo sapevo.




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